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La lezione degli anni '70 contro l'inflazione

Il tema dell'alta inflazione ci riguarda ancora. La Bce la scorsa settimana ha alzato i tassi di riferimento della politica monetaria di un ulteriore 0,25 per cento portando, in particolare, il tasso sui depositi delle banche presso le banche centrali nazionali dell'area dell'euro - che, insieme alla BCE, formano l'Eurosistema - al 3,5 per cento. Lo scorso 31 maggio Il Governatore Ignazio Visco ha pronunciato la parola inflazione per oltre 20 volte nelle sue "Considerazioni Finali" che, come ogni anno, accompagnano la pubblicazione della Relazione annuale della Banca d'italia.

Negli anni settanta in Italia, come in altri paesi, l'inflazione è stata anche molto più alta che nel  2022. Lo si vede dal grafico qui sotto, che mostra l'andamento dell'inflazione in Italia dal 1960 al 2023. Perché ne parliamo? Perché dall'esperienza di quel periodo è possibile ricavare indicazioni interessanti per capire cosa fare - e cosa non fare - per combattere l'aumento dei prezzi. Il Governatore Visco ne parla in un recente libro: "Inflazione e politica monetaria".

Il tasso d'inflazione in Italia dal 1960

(valori percentuali, dati mensili)

Dal grafico si vede che i livelli più alti si sono toccati negli ’70, quando il tasso di inflazione ha registrato picchi superiori al 20%

Fonte: Fondo Monetario Internazionale.

L'inflazione, lo ricordiamo, è l'aumento generalizzato dei prezzi, calcolato su un campione di prodotti e servizi - il "paniere" - che rappresenta le nostre abitudini di consumo. L'impennata all'estrema destra del grafico è cronaca recente: un problematico +11,6% nel 2022, dopo 25 anni trascorsi fra l'1 e il 3%; a maggio 2023 l'inflazione era scesa al 7,6%. Il problema è comune a tutti i paesi dell'area dell'euro. La Banca centrale europea, il cui obiettivo principale è mantenere la stabilità dei prezzi, sta lavorando per riportare l'inflazione al 2% nel medio periodo.

I picchi torreggianti a sinistra, invece, sono il triste passato: un decennio di tassi di inflazione a due cifre, con punte superiori al 20%, e poi un ritorno troppo lento a valori normali.

Il prezzo della guerra: beni energetici più costosi

Allora, come oggi, la forte ripresa dell'inflazione in Italia e a livello globale era derivata in gran parte dal rincaro dei prodotti energetici importati. Nel 2022 il rincaro ha interessato in particolare il gas naturale di origine russa il cui prezzo si è impennato con lo scoppio della guerra fra Russia e Ucraina.

Negli anni settanta e ottanta, invece, i prezzi esplosero per i forti rialzi del petrolio, causati da due shock: la guerra arabo-israeliana dello Yom Kippur (1973), con l'embargo all'esportazione di greggio da parte dei paesi arabi produttori dell'OPEC, e la rivoluzione in Iran (1978). In Italia, comunque, pressioni sui prezzi si erano manifestate già prima a causa delle tensioni dell'autunno caldo nel mercato del lavoro (1969) e della svalutazione della lira dopo l'abbandono degli accordi di Bretton Woods sui cambi fissi (1971).

Rispetto ad altre economie avanzate, in Italia l'inflazione restò elevata più a lungo e toccò picchi molto più alti. Gli effetti dei due shock, infatti, furono amplificati e prolungati da tre fattori principali, spiegati nella Relazione annuale (pag. 112) e nel libro del Governatore. Approfondiamo insieme.

Fattore numero 1. Una politica monetaria non separata dal governo dell'economia

La politica monetaria è fatta di decisioni che incidono sulla quantità di moneta e sul credito e utilizza,  quale strumento principale per ridurre l'inflazione, l'aumento dei tassi di interesse ufficiali e, di conseguenza, dei tassi di mercato. L'aumento dei tassi frena la domanda di depositi, la principale forma di moneta, perché i risparmiatori si spostano verso i titoli, che offrono appunto tassi di interesse più alti. Inoltre, i prestiti per famiglie e imprese diventano più onerosi: il credito rallenta, riducendo  consumi e investimenti e frenando la crescita economica. La politica monetaria che combatte l'inflazione può quindi risultare impopolare.

Una banca centrale che non ha piena autonomia nelle decisioni che influenzano la quantità di moneta e di credito incontra difficoltà nell'azione di contrasto all'inflazione. In questa situazione si trovava la Banca d'Italia negli anni settanta: benchè avesse una riconosciuta autorevolezza, aveva dei limiti nel controllo della moneta. Come riassunto nel primo capitolo del libro del Governatore, la Banca d'Italia considerava il disavanzo pubblico come un dato e aveva preso un impegno unilaterale a comprare i titoli pubblici invenduti alle aste: ciò dava luogo a creazione di moneta, contribuendo ad aumentare l'inflazione. Per superare questo cortocircuito - la mancata separazione tra politica monetaria e finanziamento del disavanzo pubblico - iniziò nel 1981 (anno del cosiddetto "divorzio" consensuale dal Ministero del Tesoro) quel processo che ha progressivamente separato la politica monetaria dal finanziamento del disavanzo pubblico, consentendo la partecipazione dell'Italia all'integrazione europea e alla nascita dell'area dell'euro.

Fattore numero 2. Una politica di bilancio non equilibrata

La politica di bilancio è fatta di decisioni sulle tasse, sull'indebitamento dello Stato e sulla spesa pubblica. Può far salire i prezzi, e quindi far crescere l'inflazione, perché accresce la domanda di prodotti e servizi in un'economia (ad esempio con tagli alle tasse o trasferimenti a fondo perduto). Negli anni settanta e ottanta, i governi italiani hanno spesso seguito una politica di bilancio eccessivamente espansiva - in contrasto quindi con la lotta all'inflazione - finanziando un forte aumento delle spese attraverso l'aumento del debito pubblico. Fra il 1970 e il 1990 il debito pubblico esplose, passando dal 40% al 100% del Prodotto interno lordo (PIL).

Fattore numero 3. La rincorsa fra salari e prezzi

Una conseguenza dell'aumento dell'inflazione è la richiesta da parte dei lavoratori di adeguare i salari al nuovo costo della vita. L'adeguamento automatico può innescare un meccanismo circolare: la crescita dei salari fa essa stessa salire i prezzi, perché aumenta i costi di produzione delle imprese che si riflette in un aumento dei loro prezzi e, inoltre, incrementa la domanda di prodotti e servizi. Negli anni settanta questa spirale si verificava, contribuendo all'inflazione, perché era in vigore un adeguamento automatico dei salari ai prezzi, la scala mobile. Il  meccanismo venne limitato negli anni ottanta e fu poi abolito nel 1993, con un accordo che inaugurò la concertazione fra sindacati e datori di lavoro. Legare l'aumento delle retribuzioni alla crescita della produttività, anziché ai prezzi, riduce invece il rischio di inflazione, perché la crescita della domanda viene compensata dalla crescita dell'offerta di prodotti e servizi.

Qual è dunque la lezione?

L'Italia di oggi è molto diversa da quella degli anni settanta sotto il profilo istituzionale e nel clima sociale. Per assicurare la stabilità dei prezzi, però, restano necessarie: l'indipendenza della banca centrale, così come politiche di bilancio, negoziazioni salariali e strategie di prezzo delle aziende coerenti con l'obiettivo di ridurre l'inflazione.

Per approfondire

Leggi di più sull'inflazione e su come comportarti quando è elevata.

Scopri che cos'è la stabilità dei prezzi.

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