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La risposta vale un Nobel
La storia dello sviluppo economico degli ultimi secoli è ricca di casi di insuccesso, quelli in cui politiche basate sul trasferimento di ingenti flussi finanziari e di avanzate conoscenze tecnologiche e sulla realizzazione di moderne infrastrutture hanno totalmente fallito l'obiettivo di innescare cambiamenti, economici e sociali, in grado di rendere i paesi o le regioni destinatarie degli aiuti capaci di camminare con le proprie gambe.
A tale questione, nel 2001 l'economista William Easterly dedicò un volume, il cui titolo ("The Elusive Quest for Growth" cioè "Lo sviluppo inafferrabile" nella traduzione italiana) rende bene l'idea dello smarrimento che perfino l'esperto può provare di fronte a una domanda apparentemente semplice: cosa serve per aumentare il benessere economico delle popolazioni?
Qualcosa di simile a questa stessa domanda dovette attraversare i pensieri di Alfred Nobel mentre, nel 1895, scriveva il suo testamento, disponendo che una parte del suo patrimonio fosse destinata a "costituire un fondo i cui interessi si distribuiranno annualmente in forma di premio a coloro che, durante l'anno precedente, più abbiano contribuito, al benessere dell'umanità".
E la risposta che Nobel ci consegnava nelle sue ultime volontà, fu che per accrescere il benessere servono: la cultura, scientifica e umanistica, e la pace. La prima, perché produce medicine, lavatrici, romanzi e mille altre cose che migliorano la nostra vita. La pace perché… non c'è bisogno di spiegarlo.
Poi, diversi anni dopo, a qualcuno – la banca centrale di Svezia, per la precisione – dovette venire in mente che alla "ricetta della felicità" mancava un ingrediente fondamentale: i soldi. E così dal 1968 anche agli economisti fu permesso di concorrere per il premio Nobel.
La cosa curiosa è che i tre vincitori di quest'anno, Daron Acemoglu, Simon Johnson e James Robinson, lo hanno meritato per una ragione che, semplificando molto la dotta motivazione del comitato per il Nobel, può essere così descritta: "vi siete sbagliati. La scienza e la tecnica, la cultura, la pace e perfino i soldi, da soli, non bastano".
Non bastano a sostenere una crescita duratura e una diffusione del benessere se quel complesso di norme giuridiche, prassi burocratiche e meccanismi che regolano le decisioni pubbliche, quelle che in un'accezione parziale del termine possiamo definire "istituzioni sociali", non funzionano in senso virtuoso. Accade quando le istituzioni tendono a depredare la ricchezza prodotta, a concentrarla nelle mani di pochi, creando un ambiente ostile alle prospettive di guadagno degli imprenditori così come alle aspettative dei lavoratori di partecipare alla distribuzione del reddito in misura proporzionata al loro contributo.
La qualità del diritto, quello "privato" e quello "pubblico", è insomma l'ingrediente necessario nella visione del mondo dei tre autori.
L'idea non è nuovissima: nessun economista di buon senso e buona cultura ha mai ignorato il ruolo delle istituzioni nel favorire la formazione della ricchezza e della sua equa ripartizione. Nel 1960 Luigi Einaudi, che da Governatore della Banca d'Italia e poi da Presidente della Repubblica aveva acquisito una conoscenza non solo teorica del funzionamento dei sistemi economici e delle istituzioni, scrive: "Le opere veramente feconde, perché vengono prima e senza di esse nulla si fa, sono quelle che non paiono fruttifere di reddito o di aumento di reddito, salvo che a lunga scadenza e si chiamano: giustizia, sicurezza, ordine, libertà (Einaudi, "Il Mezzogiorno ed il tempo lungo", Corriere della Sera, 21 agosto 1960).
Nella teoria economica che vuole essere scienza, cioè nell'ambito delle idee degli economisti che si possono sottoporre a verifica empirica, queste convinzioni hanno trovato spazio dapprima con gli studi pionieristici di Douglas North (premio Nobel nel 1993) e da ultimo con il lavoro, teorico ed econometrico, dei tre vincitori di quest'anno.
Essi si sono cimentati con notevole successo anche nel difficile campo della divulgazione scientifica, cosa niente affatto trascurabile agli occhi di chi, come noi, si occupa di divulgazione ed educazione finanziaria.