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È ancora in corso la campagna delle Nazioni Unite Orange the Word: 16 giorni di attivismo - dal 25 novembre al 10 dicembre - contro tutte le forme di violenza di genere.
Lo scorso 25 novembre abbiamo evidenziato il divario che sussiste per le donne rispetto agli uomini nelle competenze finanziarie e che, nei casi più gravi, può sfociare in episodi di "violenza economica". Tra le principali ragioni alla base di tale divario rileva la scarsa partecipazione delle donne al mercato del lavoro. I dati dell'ultima indagine IACOFI, appena pubblicati sul nostro sito, consentono di evidenziare come le donne che hanno minori competenze finanziarie sono quelle che non svolgono (o non svolgono più) un'attività lavorativa: le casalinghe e le pensionate. Percepire un reddito da lavoro, infatti, stimola le persone a porsi questioni economiche (se e quanto risparmiare, come investire i propri risparmi, etc..), favorisce l'uso di servizi finanziari (ad esempio l'apertura di un conto corrente o l'utilizzo di una carta di credito) e rende più agevole l'accesso al credito (l'accensione di un mutuo, la cessione del quinto dello stipendio, etc.).
Oggi diamo volentieri spazio a una recente analisi di una ricercatrice della Banca d'Italia, Francesca Carta, che affronta i temi del difficile equilibrio tra lavoro e vita famigliare delle donne e delle misure che potrebbero elevare la partecipazione femminile al mercato del lavoro, come il rafforzamento dei servizi per la prima infanzia e l'allungamento del congedo obbligatorio per i neo-papà.
Nonostante nell'ultimo mezzo secolo si sia assistito ad un sempre maggiore coinvolgimento delle donne sul mercato del lavoro, la disuguaglianza di genere in ambito lavorativo persiste anche nei paesi più sviluppati. La ricerca economica si concentra nel trovare le radici di questo divario nell'esperienza delle donne come madri, dato che rispetto al passato il gap tra uomini e donne in termini di istruzione si è ormai colmato e, almeno esplicitamente, pratiche discriminatorie sono vietate. Vi è evidenza diffusa che esiste una penalizzazione nelle carriere delle madri legata al momento della nascita di un figlio. L'entità di questa penalizzazione dipende dalla difficoltà di accordare (o far coesistere) l'esperienza della maternità con quella professionale. Le politiche di conciliazione dei tempi di vita familiare e lavorativa (come i congedi parentali e la fornitura di servizi per l'infanzia) mirano proprio a incoraggiare la partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Tuttavia, non è detto che un'offerta pubblica generosa di servizi o di congedi sortisca gli effetti sperati: la risposta dipenderà da numerosi fattori, quali gli ostacoli all'occupazione femminile e il tipo di assistenza offerta per i figli.
L'Italia è caratterizzata da una bassa partecipazione delle donne al mercato del lavoro e da un sistema di politiche familiari piuttosto esiguo, soprattutto sul fronte dei servizi di cura per i figli. Le donne e le madri italiane storicamente partecipano poco al mercato del lavoro: il rapporto tra quelle che lavorano e quelle in età lavorativa (tra 15 e 65 anni) è addirittura il più basso tra quelli registrati nei 28 paesi dell'Unione Europea (56,2 per cento, 68,3 nella media dell’UE28). D'altro canto, le donne italiane dedicano più tempo delle altre madri europee alle attività domestiche e alla cura dei figli. Per gli uomini il confronto risulta rovesciato: ne consegue che la specializzazione delle attività tra generi - gli uomini impegnati al lavoro, le donne a casa - è più marcata che altrove. Tale evidenza emerge anche restringendo il campo di osservazione alle sole donne che lavorano e a quelle più giovani.
Il welfare a sostegno delle famiglie è esiguo nel nostro paese: sebbene il livello di spesa pubblica sia elevato e simile a quanto registrato nei paesi Nordici, la quota destinata alle politiche familiari è molto più bassa, non solo rispetto a quei paesi che sembrano un modello a cui tendere (Svezia, Finlandia) ma anche nel confronto con gli altri paesi europei. Il sostegno alle famiglie italiane, inoltre, si estrinseca soprattutto attraverso aiuti di tipo monetario (sussidi o trasferimenti fiscali), un'impostazione profondamente diversa da quella attuata nei paesi Nordici, dove il perno del sostegno è rappresentato da una capillare rete di servizi soprattutto per la prima infanzia.
Ed è proprio su questo aspetto che il nostro sistema è carente: in Italia l'utilizzo dei servizi per l'infanzia - per la fascia 0-2 anni - è molto limitato, solo il 29 per cento (35 per cento nella media UE28), mentre raggiunge il 95 per cento tra i bambini di 3-5 anni (85 per cento il dato europeo). Intervenire durante la prima infanzia è particolarmente importante per evitare che le donne stiano troppo a lungo lontane dal mercato del lavoro, si impoveriscano professionalmente e risultino quindi scoraggiate dal rientro. Ci sono chiare evidenze che l'accesso anticipato ai due-enni alla scuola dell'infanzia, un servizio più a basso costo del nido, ha effetti positivi rilevanti sull'occupazione delle madri, suggerendo quindi un'importante linea di intervento per sfruttare meglio il potenziale offerto dalle donne sul mercato del lavoro (non vi è invece evidenza che l'ingresso anticipato alla scuola dell'infanzia possa aver compromesso lo sviluppo cognitivo dei bambini, un argomento che spesso viene riproposto al fine di tutelare e conservare l'immagine della donna come solo madre e angelo del focolare).